La flat tax rilancerebbe i consumi, gli investimenti e l’occupazione. È la riforma più efficace per far ripartire il paese
La leva fiscale può essere un efficace strumento di politica monetaria e, per utilizzarla, non abbiamo bisogno di alcuna autorizzazione o consenso della Ue. Su questo punto sia Lega che FI convergono. La riforma dell’attuale Testo Unico delle Imposte sul Reddito e l’introduzione di una Flat Tax (aliquota unica fiscale) per famiglie e imprese (che per noi è al 15%) rappresenta un pilastro portante del programma condiviso con cui affronteremo insieme, ciascuno con le proprie prerogative, la prossima campagna elettorale. Lo spirito della riforma fiscale che proponiamo va nella direzione auspicata da chi, a buon diritto, rivendica la necessità di un’espansione della base monetaria per favorire i consumi al palo da ormai dieci anni. Di fatto lo Stato rinuncerebbe a drenare sotto forma di imposte 63 miliardi di euro lasciandole per i 3/4 nelle tasche delle famiglie e per 1/4 nelle casse delle imprese, così da favorire la ripresa della domanda, degli investimenti, della produzione e dell’occupazione. Un provvedimento le cui coperture sono strutturalmente garantite dal nuovo gettito derivante dalla crescita del Pil nel triennio, dall’emersione di parte dell’economia sommersa e da nuovo gettito Iva e sostenute, in via iniziale, da provvedimenti extra gettito come il saldo e stralcio per 60 miliardi delle cartelle esattoriali in incaglio, il cui totale ha raggiunto la cifra esorbitante di 950 miliardi.
Si tratta di una riforma che non impatta né sul Debito Pubblico né sul Deficit e che proprio per questo prevede alcune specifiche clausole di salvaguardia come l’eventuale conguaglio fino al 20% di aliquota per i redditi famigliari sopra gli 80 mila euro e un taglio certo alla spesa pubblica di 12 miliardi, tra i quali i 7 miliardi che spendiamo oggi per il Jobs Act a cui le imprese faranno volentieri a meno vedendosi tagliare 9 punti di aliquota Ires.
Fatta questa premessa, ben vengano iniziative a supporto come l’emissione di una moneta nazionale parallela non convertibile per il solo utilizzo interno, ma occorrerà chiarire bene le caratteristiche di questo strumento. Il corso legale della moneta è determinato dal fatto che lo Stato l’accetta in pagamento delle imposte e non semplicemente per lo scambio di beni e servizi. Dunque varrebbe la pena capire se l’emissione della nuova moneta risponderà o meno a questa esigenza. In caso affermativo è evidente che la maggior parte dei contribuenti sceglieranno di pagare le imposte con la valuta nazionale, tenendo per sé l’Euro che diventerebbe nel giro di poco bene rifugio o circolante solo a certi livelli della società. Il rischio di creare un mercato parallelo di valuta è alto e allo stesso tempo lo Stato vedrebbe ridursi le entrate tributarie in Euro a favore della moneta locale. Come pagherebbe poi gli stipendi pubblici?
Se, come qualcuno ha ipotizzato, la moneta potrà essere utilizzata per il pagamento dei tributi solo dopo tre anni dalla messa in circolazione, allora potrebbe essere complicato renderne obbligatoria l’accettazione per le transazioni perché quasi nessuno vorrebbe trovarsi una moneta non convertibile e soprattutto inutilizzabile per il pagamento delle imposte, che notoriamente hanno un peso altissimo sul totale del giro d’affari. Diverso sarebbe, anche per evitare l’effetto «brodino» evocato dal direttore Feltri, se questo strumento avesse una finalità transitoria, in vista di un ritorno definitivo alla divisa nazionale. A queste condizioni si tratterebbe solo di una doppia circolazione come lo fu quando siamo entrati nell’Euro, ma la moneta nazionale dovrebbe essere a corso legale, convertibile e in breve tempo rimpiazzare definitivamente la divisa unica europea.
Se dal prossimo governo di centrodestra l’intera questione non sarà affrontata su basi ideologiche, bensì con atteggiamento costruttivo, anche la revisione dei Trattati Europei, compreso quello sulla moneta unica, potrà farci ottenere risultati insperati perché ad un certo punto potremmo trovarci al fianco proprio i partner europei più agguerriti come la Germania, che si renderà conto dei propri limiti. Infatti, la decisione della BCE di passare al setaccio 1600 istituti bancari tedeschi fino ad oggi risparmiati dalla scure degli stress test è l’inizio di un nuovo corso. L’importante sarà non giungervi impreparati. per aprire la crisi di governo. Questo è il piano.
Il voto a febbraio, però, si scontra con un ostacolo: Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica non condivide l’esigenza di correre verso le urne. Non è contrario a priori, ma non la considera un’urgenza. Dipende dall’agenda che ci sarà. Tra la ricostruzione delle zone terremotate, l’allarme terrorismo e il dossier migranti è complicato pianificare. Ieri Gentiloni ha fatto il punto a un anno dalle scosse nel Centro Italia: il lavoro da fare è ancora tanto e a settembre dovrà nominare un nuovo commissario, visto che Vasco Errani lascia. Sul fronte terrorismo, poi, si devono realizzare molte, immediate misure di sicurezza. Anche il premier pensa sia complicato votare a febbraio. Ma non si farà scappare una parola che possa essere letta in contrasto con la linea di Renzi.
Fonte: Libero Quotidiano